Un articolo di Dario De Marco sul tema delle metropoli contemporanee e tutte le loro potenzialità e contraddizioni.

Data di pubblicazione: 2 Aprile 2020
Obiettivo
Cultura.

Sta nascendo un nuovo spirito civico, trasformato da un concetto di innovazione civica che pone l’accento sull’aspetto tecnologico delle relazioni. Questo articolo propone uno degli approfondimenti sviluppati nell’ambito della collaborazione tra CHE_FARE e la Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del progetto CIVICA.

 

“There’s no such things as society”, è la famosa frase di una delle menti più influenti del nostro tempo. L’affermazione non suoni provocatoria. Margaret Thatcher è all’epoca premier del Regno Unito: quello che era stato uno dei più grandi imperi del mondo, e al contempo una delle democrazie più antiche; il regno che aveva inventato il colonialismo moderno, e poi lo aveva smantellato; la nazione che aveva contribuito a codificare il welfare state, e che si apprestava a farlo a pezzi. Bene, quando un leader politico in tale posizione dice una cosa del genere – “La società non esiste, esistono i singoli uomini e le singole donne, ed esiste la famiglia” – non è come se la dicesse un quivis de populo, e neanche un sociologo o uno studioso: è ideologia pura, anzi ideologia applicata, un vero e proprio programma di governo. E infatti è quello che è successo. Non si può parlare neanche, come spesso si fa, di profezia che si autoavvera: è proprio l’esecuzione scientifica di un pensiero ideologico, di una visione del mondo.

Molti anni dopo, la stessa Thatcher nella sua autobiografia provò a smentire, a dissipare quello che a suo dire era un equivoco: “Non viene citato mai il contesto, e il resto della frase (…) si è perso il senso che all’epoca era chiaro, di quello che intendevo dire: e cioè che la società non è un concetto astratto, ma una struttura vivente fatta di individui, famiglie, comunità di quartiere e associazioni di volontariato”. Ma sembra tanto una di quelle smentite che non smentiscono niente. Il quadro di riferimento è infatti chiaro, e può essere individuato in Ferdinand Tönnies, il pensatore tedesco dell’800 che parlò di Gemeinschaft und Gesellschaft. Comunità e società, i due tipi di aggregazione degli esseri umani: il primo concreto, antico, naturale; il secondo astratto, moderno, artificiale. Insomma, il primo vero e il secondo finto. Purtroppo le cose non sono così semplici: quello che è accaduto infatti, come si legge in un libro intitolato appunto La società non esiste (di Christophe Guilluy, Luiss University Press, 2019) è che lo smantellamento della società come costruzione statale si è tradotto in una disgregazione delle comunità e dei rapporti tra individui. Quando si parla infatti di impoverimento della classe media non si intende solo l’abbassamento degli stipendi, la perdita di potere d’acquisto, la precarizzazione del lavoro, lo spaventoso aumento della disoccupazione. È che tutti questi fattori a loro volta hanno delle conseguenze: creano invidia sociale, minano i rapporti interpersonali e di vicinato, distruggono il senso di appartenenza a una comunità. È così: senza comunità non c’è società, ma senza società non c’è comunità. Almeno non ora, non qui.

Viviamo oggi in un’epoca disgregata, in cui da un lato non conosciamo il nome della signora che abita al piano di sopra, dall’altro non abbiamo più una rete di sicurezza normativa, una garanzia economica superiore. Eppure, qualcosa si muove. Si deve muovere per forza: e se lo fa, è inevitabilmente dal basso che parte. Assistiamo, a vari livelli e in vari ambiti, alla rinascita di uno spirito civico che parte dalla semplice aggregazione di quartiere e si amplia fino all’associazione di respiro internazionale. Sono spinte senza dubbio positive, che tentano di guidare verso l’innovazione e la crescita una tendenza che ha l’uomo in tempi di crisi: quella di riunirsi tra pochi simili. È una tendenza che può prendere derive identitarie e regressive: vediamo come quindi dallo stesso impulso possano nascere tanto idee di innovazione civica quanto comunità ostili e xenofobe.

La parola chiave è “noi”: ne aveva parlato John Dewey in Spazi di cittadinanza, uno scritto del 1916: un momento e un luogo – gli Stati Uniti di cent’anni fa – completamente diverso dalla nostra esperienza eppure alle prese con gli stessi problemi. La costruzione del melting pot americano passava per il riconoscimento delle differenze storiche e culturali dei vari filoni che sono andati a innervare la società Usa, tanti strati, tanti piccoli noi che hanno creato un noi più grande; anche se sempre traballante e a rischio. Il punto è come mettere l’accento sul noi senza farlo diventare noi-contro-tutti, senza cadere nel tribalismo, nel populismo identitario. Lo sottolinea anche Stefano Laffi nella prefazione all’edizione italiana del testo di Dewey (Feltrinelli).

Verso lo spazio virtuale e ritorno

Certo oggi viviamo in un mondo completamente diverso, connesso a tutto e sconnesso da tutti, o almeno questa è la sensazione che abbiamo certe volte, noi che nel corso di una giornata interagiamo con decine di persone sui social network e parliamo dal vivo al massimo con una o due. È chiaro quindi, è naturale, che molte forme di aggregazione nascano come community virtuali, come realtà online che poi possono o meno avere trasformazioni nel mondo cosiddetto reale. D’altra parte una delle stesse definizioni attuali di un concetto come innovazione civica, pone molto l’accento sul lato tech: ogni “nuova idea, tecnologia o metodologia che sfida e migliora i processi e i sistemi esistenti, migliorando di conseguenza le vite dei cittadini o la funzionalità della società nella quale vivono”.

È chiaro che la costruzione di community online permette di fare cose inimmaginabili solo qualche anno fa: è impossibile a questo punto non citare il Facebook Community Leadership Program, una iniziativa lanciata dal social network due anni fa – probabilmente come operazione di reputation washing dopo lo scandalo Cambridge Analytica – quando Zuckerberg decise che basta fake news, basta politica e hate speech, Facebook doveva diventare o tornare a essere il social delle persone. E quindi l’accento andava spostato dal newsfeed ai gruppi: vennero scelte e finanziate più di cento community in tutto il mondo, e di tutti i tipi. Da questo mondo variegato è possibile fare degli esempi, funzionali al discorso che stiamo portando avanti: Africa Farmers Club, per dire, è una community di contadini sparsa su tutto il continente, volta allo scambio di informazioni e conoscenze; così come Cronicas de Surdez nasce per spezzare l’isolamento delle persone sorde in tutto il Brasile. Sono casi in cui la lontananza fisica non è solo la barriera abbattuta grazie alla tecnologia, ma è la ragion d’essere stessa della community virtuale, che esiste a dispetto della geografia.

Altre volte l’idea nasce online, e non potrebbe diffondersi diversamente, ma nella rete trova solo uno strumento, e poi travalica i confini del virtuale per tornare nel mondo reale. È il caso di Social Street, che non a caso ha come sottotitolo “Dal virtuale al reale al virtuoso”. Nato come gruppo Facebook di quartiere a Bologna nel 2013, è diventato un format (diffuso in tutta Italia e oltre: parliamo di decine di gruppi nelle città più grandi, e centinaia in totale). Lo scopo è “favorire le pratiche di buon vicinato, socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale”. Il metodo è semplice e funzionante: il criterio principale è quello territoriale, per cui non si aderisce a un mega gruppo ma si costituiscono vari gruppi locali; contemporaneamente quello territoriale è l’unico requisito, cosa che favorisce “la destrutturazione di tutte le altre categorie in cui le persone normalmente si riconoscono (classi sociali, interessi, età, appartenenze politiche, religiose, provenienza)”. Altri pilastri sono la gratuità, l’assenza di obblighi formali, e poi la natura “dal basso”: sono per definizione escluse le istituzioni, gli enti, i comitati e così via. Esistono solo gli individui: come si vede in questo contesto la frase assume un valore rovesciato.

L’intelligenza del polpo

Nel 2018 è uscito un libro molto bello, dell’altrettanto bella collana Animalia di Adelphi: si chiama Altre menti, l’ha scritto Peter Godfrey-Smith e parla del polpo. Il polpo è uno degli animali più intelligenti del pianeta – si è osservato che gioca, che interagisce in maniera complessa con i suoi simili e con altri esseri, che percepisce sé stesso e gli altri come individui – ma siccome la sua linea evolutiva si è separata da quella che conduce a noi moltissimo tempo fa, è intelligente in un modo completamente diverso dal nostro e da quello degli altri mammiferi (non solo i primati, ma anche elefanti e delfini creano interazioni e legami sociali che sembrano molto simili ai nostri perché… be’, lo sono). Di fatto il polpo è quanto di più vicino a un’intelligenza aliena possiamo immaginare. Una delle particolarità della sua intelligenza è che è diffusa: mentre nei mammiferi il sistema è centralizzato, c’è un cervello che comanda tutto il resto, il polpo ha neuroni sparsi per tutto il corpo, e in particolare concentrati nei tentacoli. Le sue otto appendici, in un certo senso, è come se agissero e “pensassero” in maniera parzialmente indipendente.

Il polpo può essere una metafora utile quando si parla delle città, delle metropoli contemporanee. Che per una serie di fattori stanno diventando sempre più centralizzate e sempre più decentrate. Da un lato infatti c’è lo spostamento della produzione dall’industria al terzo settore, che ha caratterizzato gli ultimi decenni; a questo si è aggiunto negli ultimi anni il boom del turismo, la “turistificazione”, opportunamente preceduta e agevolata dalla gentrification di interi quartieri, quasi sempre centrali. Ne parla Sarah Gainsforth nel suo saggio, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (DeriveApprodi): il successo della piattaforma di affitti a breve termine è conseguenza di una serie di fattori (fine delle politiche sociali inclusive, che spinge i meno abbienti ad abbandonare alcuni quartieri; incertezza lavorativa ed economica, che stimola a mettere a reddito la più piccola proprietà immobiliare) e a sua volta determina conseguenze. I centri cittadini si svuotano: diventano territori dei turisti e dei super-ricchi, ma essi sono presenze passeggere. Contemporaneamente, la vita pulsa ai margini, alle periferie. Tanto da ispirare delle narrazioni rovesciate, delle letture in controluce di una città, come quella acida e antiretorica di Remoria (Valerio Mattioli, minimum fax, 2019), l’urbe di Remo, opposta a quella di Romolo. Le periferie diventano quindi chiave di lettura del presente, ma anche laboratorio di iniziative inspiegabili, paradossali. Intelligenze diffuse, marginali, aliene: ecco il polpo.

Il paradosso è che le iniziative civiche spesso hanno a che fare con l’azione culturale: sembra strano perché andare a parlare di letteratura o di teatro in quartieri dormitorio privi di infrastrutture e di servizi basilari, può suonare ingenuo o provocatorio (con la cultura non si mangia!). Eppure è proprio quello che succede. Lo abbiamo visto a Scampia – terra di camorra che Napoli cerca di isolare ed estromettere come un corpo infetto – con l’esperienza di teatro collettivo per adolescenti Arrevuoto. E sempre da Scampia arriva un’altra storia improbabile: quella della libreria/casa editrice Marotta e Cafiero. Un editore storico di Napoli, nato addirittura nel 1959, che ha pubblicato autori come Andrè Gide e Domenico Rea, e ha avuto tra i curatori delle collane Salvatore Quasimodo. Anche questa azione nasce da un movimento: non dal virtuale al reale ma dal centro alla periferia. Nel 2010 infatti la casa editrice viene donata dai vecchi proprietari a due ragazzi, Rosario Esposito La Rossa e Maddalena Stornaiuolo, che la portano da Posillipo – la Napoli straricca delle ville, quella dei panorami e delle cartoline, il luogo dell’oleografia per antonomasia a Scampia. È un doppio movimento, generazionale e geografico.

La Marotta e Cafiero diventa una casa editrice specializzata nei temi dell’ecologia, dell’antimafia, dell’immigrazione e della decrescita. Dopo qualche anno apre un punto vendita che è anche centro culturale, all’interno di una scuola; l’ultima che si sono inventati è il libro sospeso, come il caffè che nei bar di Napoli si poteva lasciare pagato a chi ne avesse il bisogno, ma non la possibilità economica. Azienda “pizzo free” cioè ribelle al racket, attenta ai prezzi e al lato ecologico della produzione, spesso si finanzia con il crowdfunding attraverso Produzioni dal basso.

Bucce di banana

Una delle contraddizioni che rendono il mondo attuale così schizofrenico è il paradosso dell’abbondanza: da un lato l’iper produzione e l’iper consumo, che portano allo spreco di tonnellate di materiale deperibile; dall’altro persone che muoiono letteralmente di fame. All’interno della filiera distributiva sono innumerevoli i punti in cui avviene lo spreco: uno dei più notevoli è proprio l’ultimo, le nostre case. Quante volte ci si sente in colpa nel buttare un avanzo o addirittura un pacco intonso perché scaduto – e ancora più rabbiosi e impotenti perché non si ha neppure a chi donare (la signora di sopra, che vive con la pensione minima? Ma se non sappiamo neanche come si chiama).

Ma anche i punti intermedi non scherzano: negli ultimi anni sono nate numerose iniziative, da quelle più spontanee a quella più organizzate, da chi fa volontariato a chi prova a ricavarne un business. Così c’è chi ha un accordo informale con un paio di panettieri e a fine giornata passa a ritirare l’invenduto per portarlo alla mensa Caritas; ci sono chef che organizzano eventi e corsi di cucina con gli avanzi; ci sono app come Too good to go, attraverso le quali i negozianti mettono in vendita a metà prezzo i cibi all’avvicinarsi dell’orario di chiusura.

E poi c’è chi rende questa attività di recupero un momento sociale e di auto-aiuto. È Recup, un progetto nel cui logo campeggia una banana, ben prima che quella di Cattelan facesse il giro del mondo e dei social. “Combattere lo spreco alimentare e l’esclusione sociale nei mercati rionali”. È a Milano e funziona così: i gruppi si ritrovano al mercato (sono i classici mercatini rionali che si tengono una volta alla settimana) a fine mattinata o a fine giornata, recuperano il cibo che i commercianti butterebbero e invece regalano, ci si vede in un punto dove viene effettuato un controllo finale e uno scarto. A questo punto arriva il bello: il cibo non viene radunato e portato chissà dove, ma ce lo si divide. I beneficiari sono i partecipanti stessi. Un momento di incontro che finisce per nutrire il corpo come lo spirito. Ne abbiamo bisogno.

di Dario De Marco